Ieri sera ero al Khorakhané di Grosseto per festeggiare il compleanno di Leonardo Marcucci, con cui ho suonato per anni e che mi onoro di avere come amico. Erano anni che non ci venivo, da quando esordimmo lì, con Leo, Emanuele Cannatella ed un paio di tedeschi folli con il primo spettacolo di Teatro Canzone che facemmo, “La menzogna di Dedalo”. Fu una bella serata ed il pubblico fu gentile con noi, anche se io ero molto impacciato. Stavolta non ce n’era bisogno. Il quartetto messo su da Leonardo e Jole Canelli è uno degli eventi musicali più incredibili che io abbia mai visto dal vivo. E dire che Leo e Jole, insieme, li ho già visti dal vivo decine di volte. O dovrei dire dal morto, perché dopo ieri sera, tutto ciò che è venuto prima è stato cancellato, come non fosse mai accaduto. O forse dovrei smetterla con le iperboli e spiegare meglio. Le canzoni scelte da Jole abbisognano di un’apertura vocale davvero molto ampia, ma lì, dove la voce non arriva, arriva la tecnica (come nel coro di “Fame” di David Bowie) ed una precisione spasmodica e certosina, una cura implacabile nel dettaglio, nell’attitudine vocale, nella postura, nel gesto vocale. Jole si presenta sul palco che sembra Janis Joplin, ma canta con l’accuratezza di Carmen McRae ed Anita O’Day – finché tracima, come un fiume in piena, ma non nella morbida tristezza, quanto nella funambolica allegria dii Ella Fitzgerald. Jole non è una cantante blues, ma una musicista di jazz, un’icona del be-bop, il contraltare di Sarah Vaughan, che (alla bisogna) si può divertire con altro, e recupera le cantanti moderne, da Amy Winehouse ad Alicia Keys, mostrando loro che, con la precisione del be-bop, anche il jazz melenso, mischiato al caraibico e monocorde di oggi avrebbe un suo motivo di essere a prescindere dalla data di produzione. Ed infatti Jole diventa sexy quando canta in francese, come una santona del creolo che un giorno creerà il suono di New Orleans, dopo aver oltrepassato i Sette Mari. Leonardo, al contempo, dopo gli anni in cui ha studiato Mussida, ha ora digerito alcuni numeri più imponenti. Primo fra tutti Adrian Belew, il link indimenticabile tra Brian Eno. David Bowie e Frank Zappa. Ed ora anche Larry Coryell, che al bivio con Ray White, ci mostra che Leo è un chitarrista bianco, uno che è partito da Django Reinhardt e Charlie Christian ed incontra Jole esattamente lì, nella genesi dei migliori dischi di Dizzy Gillespie. Vi ho annoiato? Me ne dolgo per voi, perché tutto ciò che amiamo viene dal compromesso fra quel jazz glorioso, immane, tracotante di bellezza e tecnica, ed il pop (eresia! eresia!) che, prima di arrivare a Mahler e prendere altre strade, aveva creato la scuola russa degli Stravinskij, dei Rimski Korsakoff, dei Cajkowskij, dei Mussorgskij. Se la musica classica aveva imparato a ridigerire la canzone popolaresca, il jazz degli anni 40 era molto in anticipo, ed era lontana milioni di anni luce dai cant tribali africani e tzigani, da cui era nata. Ed infatti, in quasi due ore di concerto, Leo si è concessa una citazione solo nell’ultimo brano, inserendo i Pink Floyd, solo per far capire che, nonostante i quasi 40 anni e la nuova (tutt’altro che sobria) perfezione raggiunta, è ancora il bimbo giuggiolone di sempre. Cosa voglio dire? Che Leo e Jole dovete ascoltarli ora, che sono in stato di grazia, e che fra qualche anno, ne sono certo, saranno altrove, perché avranno masticato anche tutto questo ed avranno bisogno di nuove praterie da percorrere ed in cui sciamare come mustangs selvaggi.

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