Ascoltando il resoconto sui dati sull’occupazione mi vengono in mente alcune considerazioni. Qualunque cosa abbia fatto il governo, il recupero di posti di lavoro avviene quasi esclusivamente nel precariato. L’unico aspetto veramente positivo del “Job’s Act” è la scomparsa di tantissime figure in un fittizio regime di partite IVA. Insomma, il precariato tende ora a venire in superficie. Ma questo cosa significa? Significa, prima di tutto, che la piena occupazione sia oramai una chimera, una favola cui i bambini (giustamente) smettono di credere quando capiscono la bufala di Babbo Natale e della Fatina del Dentino. Per riuscire a rimanere occupati in un’azienda che ti assume (come precario) quando non sai fare poco o nulla (quindi, in generale, quando esci dall’Università) è di essere straordinariamente capace di renderti indispensabile nel breve arco di tempo della durata del primo (e generalmente ultimo) contratto. Essere bravi, volenterosi e diligenti non basta più, e questa è una condizione su cui nessun governo può incidere. Ci sono, è vero, i pelandroni, ma il guaio è che chi ha studiato davvero, ha studiato cose che servono poco – o magari sono troppo avanti rispetto alla realtà delle singole aziende. Ai “tempi belli”, il 31,3% degli occupati (dati ISTAT relativi al 1964) era andato a bottega, aveva imparato un mestiere, e si preparava a prendere il posto del maestro. Tutto finito. L’artigianato è stato cancellato dalla faccia della Terra, ma non dai bisogni dell’economia, quanto dalle bizze della società e della politica. Dopodiché, il fatto che le industrie non abbiano più bisogno di gente alla catena di montaggio ha avuto conseguenze terribili, ma ampiamente previste già da 60 anni. Sicché, ancora oggi, cresce il paradosso di aziende che cercano e non trovano la persona da assumere (e si rivolgono all’estero), da cui discende un deficit di posti non occupati superiore al milione di unità, e dall’altra parte il 10,9% della popolazione che non trova nulla che consideri accettabile – e, piuttosto che accettare un lavoro condizioni ritenute umilianti, continua a vivere sulle spalle della famiglia. Esprimo questo concetto senza giudizio, perché è un dato di fatto. L’errore dell’Università, non è tanto e solo di insegnare poco e male, ma di peccare (per sua natura) di mancanza di flessibilità. Insegna a tutti le stesse cose, quando oggi, in ogni azienda, esiste un protocollo estremamente specifico, che rende persino difficile cambiare azienda all’interno dello stesso mercato, perché le due aziende lavorano in modo completamente differente. Nella DDR questo problema veniva risolto (con successo) trasformando gli ultimi tre anni di studio in un misto di scuola e lavoro, per cui ogni singolo studente imparava il singolo protocollo dell’azienda presso la quale studiava, e poi andava a lavorare proprio lì. Finché rimase in carica Walter Ulbricht (ovvero fino alla VERA fine della Guerra Fredda e del capitalismo industriale, nel 1973), e finché l’Unione Sovietica evitò di strozzarne la capacità propulsiva (per pagare i propri sbilanci industriali), la DDR, pur senza materie prime, era la decima potenza economica mondiale. Fino al 1990, oltretutto, il suo sistema formativo è rimasto eccezionale, straordinario, nettamente superiore a quello dei Paesi occidentali. Esistono le intelligenze e le volontà politiche per una riforma del mercato del lavoro e dell’istruzione in questa direzione? Credo di no, perché oggi, molto del precariato, è attivo nel settore pubblico (che difficilmente crea plusvalore) o in aziende che vivono di “progetti”; acchiappando soldi dallo Stato o dall’Unione Europea, e che vivono completamente fuori mercato. Insomma, una parte sempre maggiore degli introiti fiscali vengono messi a disposizione di furbastri, che in cambio fingono di trovare lavoro a chi ha poca ambizione, scarsa preparazione, ma buoni contatti familiari, oppure a gente coi controcoglioni in nuce, che non trova una strada per poter imparare il necessario per farcela contro tutte le condizioni negative di questo evo mediocre, altro che medio.

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