“Io se fossi Dio, / maledirei davvero i giornalisti / e specialmente tutti, / che certamente non son brave persone / e dove cogli, cogli sempre bene. / Compagni giornalisti avete troppa sete / e non sapete approfittare delle libertà che avete, / avete ancora la libertà di pensare / ma quello non lo fate / e in cambio pretendete la libertà di scrivere, / e di fotografare immagini geniali e interessanti, / di presidenti solidali e di mamme piangenti. / E in questa Italia piena di sgomento / come siete coraggiosi, voi che vi buttate / senza tremare un momento: / cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti, / e si direbbe proprio compiaciuti. / Voi vi buttate sul disastro umano / col gusto della lacrima in primo piano”. Giorgio Gaber, “Io se fossi Dio”, 1980. Abbiamo ancora bisogno del giornalismo? Non dico dell’informazione, che è cosa diversa, ma proprio del giornalismo, ovvero di qualcuno che, in uno spazio limitato, organizza l’informazione in modo da facilitarne la fruizione? Esistono il giornalismo libero e quello imparziale? Se ne sente il bisogno? Esprime il giornalismo una realtà? O la rappresenta, in nome di interessi particolari? In passato ricordai il passo di Giacomo Leopardi sullo Zibaldone, esattamente duecento anni fa: “Il destino dei giornali è di essere letti da chi li scrive, o di essere scritti da chi li legge”. La seconda che hai detto, direbbe Corrado Guzzanti, ed è sbagliata. Perché in un’epoca di contrazione della disponibilità economica, dell’accessibilità delle fonti, del tempo disponibile, della formazione culturale, della consapevolezza civica e personale – insomma in un tempo in cui la laicità lascia il posto al fondamentalismo religioso (tifosi hooligans, No Vax, Grillini, militanti di Da’esh, votanti di Donald Trump, nazifascisti, benaltristi, tronisti, e fancazzisti generici), la realtà diventa una variabile indipendente del credere. I fatti non aiutano più a modificare le opinioni. Per arrivare fin qui, il giornalismo si è macchiato di complicità. Dapprima si preoccupava di spiegare e commentare le notizie, che venivano pubblicate in forma chiaramente separata dalla loro interpretazione, dappoi (a partire dal 1994 e dalla rivoluzione berlusconiana) si è occupata solo di manipolare per dimostrare una tesi. Con il tempo, la tesi è rimasta, la sua certificazione è divenuta irrilevante – basta leggere “Libero”, “Il Giornale”, il web grillino o, sempre più spesso, “La Repubblica”. La scelta delle notizie è cambiata, la violenza la fa da padrone. Se Da’esh non compie stragi, la prima pagina è piena di assassini morbosi e locali, di Carabinieri che stuprano, di fidanzati che ammazzano, di incidenti mortali, epidemie e fenomeni metereologici e tellurici. Basta che qualcuno si faccia male personalmente tra coloro che ci sembra di riconoscere come nostri simili. Come scoprì il capo della Gestapo, Heinrich Himmler, molti morti non sono persone, ma una cifra. Tutto questo rende estremamente difficile, per i pochi che vorrebbero davvero capire, cosa sia la realtà, o almeno la parte percebibile di essa. Quale è, veramente, la nostra situazione economica? Devo avere paura, la sera, ad uscire per strada? Se ho tempo libero, cosa varrebbe la pena di andare a vedere e/o ascoltare? Cosa mi fa bene, cosa mi fa male? Per questo motivo esiste oggi la professione che svolgo io, quella di business intelligence advisor, ovvero un tizio che mette insieme nozioni di economia, giurisprudenza, storia, etnologia, politica e sociologia, e si occupa di vagliare tutte le informazioni disponibili su una determinata questione, per fornire alle grandi aziende testi brevi e documentati che li aiutino a prendere decisioni. Esattamente l’opposto dii ciò che, oggi, da Grillo al PD, da Trump a Putin, da Maduro a Tokyo Sexwale, fa il giornalismo. Siamo oramai arrivati al punto in cui, per raccontare una verità scomoda e possibile su alcuni fatti fondamentali della nostra storia recente, bisogna scrivere romanzi, come Frank Schätzing, o si rischia la vita, prima ancora di una querela, come Stig Larsson. Proprio il successo di questi autori ma lascia pensare che, alla fin fine, il giornalismo avrebbe ancora un motivo per esistere. Bisogna trovare la forma gusta, che certamente non è più quella del giornale cartaceo, ma si avvicina molto di più a fenomeni para-giornalistici come Wikipedia. Una piattaforma cui oramai crediamo tutti, e che (pare), invece, a volte spara minchiate – un pericolo inevitabile in ogni caso, perché anche la più onesta e preparata delle persone sbaglia, o ci mette troppo del suo (come faccio io). In Svizzera il progetto di Constanti Seibt, “Republik”, ci sta provando, tornando alle origini, ma con le necessità di oggi. Va data la notizia, dev’essere tenuta separata dal suo commento, ma soprattutto va data una spiegazione plausibile, documentata, il più possibile imparziale – e che non duri una mattina, ma che resti facilmente accessibile, online, tutte le volte che mi devo (voglio) occupare di una determinata questione. Un reportage sulla Guinea Equatoriale è una cosa noiosa da leggere, finché la vostra azienda non delocalizza fin laggiù. Uno sui bitcoins non si può nemmeno avvicinare, finché il vostro vicino di casa non cambia la sua vita per averci investito. Della storia di aziende come Monsanto ce ne strafreghiamo, finché non iniziano a mutare geneticamente il pane che mangiamo. Degli africani massacrati ovunque ci importa poco, finché non veniamo coinvolti nel sostenere chi li trucida (a casa loro). Una dritta: ancora una volta, l’ennesima, come sempre, se questa controrivoluzione ci sarà, verrà non dal popolo, che vota Beppe Grillo, Matteo Renzi e Matteo Salvini, legge (se mai è in grado di farlo) Fabio Volo, guarda i reality show ed ascolta i Modà e Ligabue. Verrà da ciò che resta della borghesia. Per piccina che lei sia.

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