L’Italia è una nazione di 60 milioni di commissari tecnici del calcio. Tutti tranne uno, Ventura, che ha dimostrato di capirci poco, ma oramai è fatta. Qui nessuno dice cosa sia necessario fare, tranne chiedere la testa di Ventura e Tavecchio (giusto), sapendo che i club professionistici da anni non riescono nemmeno a decidere se si faccia la pipì scappellando a destra o a sinistra. Tra tutti coloro che ho ascoltato, ed erano tanti, oggi, nessuno aveva una proposta. Io, con modestia e prudenza, mi sentirei di dire qualcosa in proposito. Il campionato di calcio riflette un’immagine dell’Italia che non esiste più: quella dei villaggi, dei campanili, che con i migliori virgulti si battono per la supremazia provinciale, e poi, lentamente, sempre con quei virgulti, magari si affacciano alla vetrina del professionismo, e sopravvivono, da dilettanti, perché sono amici, si conoscono da anni, sono legati al territorio. Questa, oggi, è una fesseria. Qualcuno ha i soldi, compra una squadretta da scapoli e ammogliati (Hoffenheim e RB Leipzig in Germania, Huddersfield in Inghilterra, Guingamp in Francia, etc.), ci mette dentro i migliori giocatori che trova in Europa con i soldi che ha a disposizione, e va a giocare in serie A, nella Bundesliga, in Premier League. Il calcio, finalmente, ha raggiunto il livello di sviluppo che ha il football americano negli Stati Uniti. Il campanile ha senso solo in contesti in cui ci sia una massa minima di 1 milione di abitanti, tra città di residenza ed hinterland. Il resto è Benevento. La Spagna e la Germania ci hanno da decenni indicato la cura. Le squadre primavera dei club di rilevanza internazionale (Milan, Inter, Juventus, Roma, Lazio, Napoli, più magari Bologna e Fiorentina) iscrivono la squadra primavera al campionato di serie C, e poi rinunciano alla promozione, se vincono il campionato. In questo modo i “gioielli” continuano a crescere in casa, e non vengono sparsi per squadrette di provincia in cui affogano. L’allenatore della prima squadra li continua a seguire sempre. Poi: 18 squadre in A, 18 in B, 18 in C, e poi gironi regionali. Basta così. Dopo la C c’è solo il dilettantismo ed i centri federali per i più bravi, quelli che aspirano a giocare nel professionismo. E nel dilettantismo: via i genitori dagli spalti, che danneggiano i figli, li strumentalizzano, li rincoglioniscono, li incattiviscono, li costringono a smettere. In Svizzera, mia nipote gioca a hockey, che è lo sport nazionale. L’allenatore le ha insegnato a pattinare, ad usare il bastone, a colpire. Poi, dopo 20 minuti di tecnica, subito partita, 30 contro 30. Tu hai il golf rosso e tiri di qua, tu ce l’hai blu e tiri di là. Chi vince? Non si sa, si gioca due ore, si ride e si scherza, l’allenatore corregge errori marchiani, alla fine tutti sono stanchi morti ed allegri. Da noi si gioca per lo 0 a 0 a sei anni, con una platea di unni incazzati che minaccia bambini ed arbitri dagli spalti, e va fuori di testa se il Real Cazzi e la Virtus Mazzi non vincono contro la Dinamo Truzzi. E si menano. Torniamo al calcio altrui. Quattro volte l’anno, per 18 giorni, i campionati si fermano, e le squadre nazionali si allenano e poi giocano. Gli stranieri che non vengono naturalizzati (come il grande Asamoah dello Schalke 04, il primo laureato in filosofia nel calcio tedesco, un grande professionista ed uno che si metteva in saccoccia, retoricamente, chiunque, nonostante fosse nero come la pece), sono quelli che non ce la fanno. Asamoah spiegava: nel calcio vince chi ha fame. A meno che i suoi genitori non lo rovinino. C’è molta più gente che ha fame di quanto si creda, basta lasciar loro il permesso di trasformarsi in pitoni e godere del calcio come si faceva alla fine della Guerra. Questo non vuol dire che mi sia antipatico il Benevento, anzi. Però Ciciretti, grazie al quale stanno dove stanno, dovrebbe giocare alla Roma, crescere, ed ottenere la chance vera di giocare per le cose che contano. Così è gettato alle ortiche. Ed in nazionale ci manca un fantasista come lui, che parte da dietro e salta i difensori altrui come paletti dello slalom. Una squadra vera o due per ogni milione di abitanti è un limite invalicabile, pena l’irrilevanza. In Svezia di squadra non ne hanno nemmeno una. I loro ragazzi crescono e giocano altrove, e non è un dramma per nessuno. E sono comunque mezze pippe. Nella nostra serie C muoiono talenti straordinari, condannati a giocare con il Gavorrano, l’Albinoleffe, il Santarcangelo e la Robur Pippette. Guardiamo il football americano, e cerchiamo di essere più pragmatici.

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