Ci sono due cose che raggiungono la perfezione assoluta, per come siamo stati creati e ci siamo adattati all’universo: la musica ed il corpo. Un corpo che si fonde con la musica è, per me, il Sacro, il simbolo dell’essenza, la glorificazione dell’Esistenza. Ci sono dei momenti di armonia, nella storia dell’uomo, che ci riempiono di commozione e, per pochi istanti, ma indimenticabili, ci restituiscono una ragione per spiegare la nostra vita, le nostre speranze, i nostri slanci. Sono momenti, non brani, mai canzoni. Il pop scimmiotta la vita, il canto popolare e tribale ne racconta la nostalgia, la monotonia urlata ed il semplicismo assordante del “metal” la distrugge e la nega. Ed ancora: il jazz ne scava le contraddizioni e ne scova le armonie segrete, il rap, infine, chiude il cerchio, riportando il suono alla sua essenza ritmica e primordiale… ma a mio parere il periodo più “sacro” della musica resta quello a cavallo tra la fine dell’800 e la Seconda Guerra Mondiale, quando migliaia di anni di storia umana giungono a maturazione, decadono, vengono annullati in un olocausto di fuoco e sangue. Quando il mondo è tecnicamente ancora in grado di capire la complessità del suono e del corpo umano. Quando i simboli non solo esistono, ma sono strumenti dell’uomo. Non come adesso, un’era in cui il corpo umano è strumento (inconsapevole) del simbolo. In quel periodo, cento anni fa, nacquero il pugno chiuso ed il saluto fascista, come gesti simbolici. C’erano già, ma non dove credete voi: tra gli indiani d’America, che usavano (specie i Navajos) le braccia tese e determinate posizioni delle mani come desinenza verbale, per indicare singolare e plurale, passato e futuro. Il gesto scelto poi dai nazisti non aveva nessun significato militare. Quest’ultimo, è importante dirlo, nell’antica Roma non esisteva. Esisteva un gesto simile, non collettivo, ma con il palmo alzato, che era una benedizione, mentre le regole della retorica proibivano di tenere un braccio alzato sopra gli occhi o abbassato sotto la pancia. Come quasi tutto ciò che fa parte dell’estetica di estrema destra, questo gesto è al contempo pagliacciata e sottomissione. Nazisti e fascisti indicano così l’annientamento dell’io in un automatismo acritico, scevro da pensiero. Questo saluto venne creato da esteti come Gabriele D’Annunzio, come contraltare al saluto “borghese” che prevede il contatto: due mani che si stringono e che segnalano uno scambio. Il saluto nazista è rifiuto dell’umanità, della vita, dell’affettività, fin dal primo momento in cui diviene regola – negli anni dei regimi tirannici in Italia ed in Germania. Il pugno chiuso, alzato verso l’alto, nasce nel 1917 come reazione al saluto romano, come simbolo della coesione del movimento operaio, come simbolo di un’unione di individui che, insieme, nonostante la loro debolezza, divengono forza e vita. Ma quelli erano tempi in cui l’uomo faceva un gesto in modo consapevole. Oggi, chi mostra il pugno o il saluto fascista, vuole indicare la sua rabbia e la speranza di essere accomunato ad altri in un ambito che, al di sopra dell’uomo, ne comandi la vita. Il pugno chiuso, ad esempio, era un segno di rivolta dei neri nell’apartheid, il regime razzista sudafricano, contrapposto al saluto nazista che veniva spesso usato dai Buuren, i bianchi al potere. Peter Gabriel, quando canta l’emozionante lamento per Stephen Biko, alza il pugno al cielo, e grida che tocca a ciascuno di noi guidare il proprio destino. Quando uscì la canzone, nel 1980, ai concerti tutti mostravano il pugno. Oggi lo fanno in pochi, perché ogni gesto umano è stato commercializzato, desemantizzato, umiliato, ridicolizzato. La gente non se la sente, e la capisco. Non fraintendete, non siamo qui alla celebrazione del Saturnia Regni, e non ho voglia di sputare su Primal Scream, System of a Down, Sex Pistols o una qualche altra commercializzazione della frustrazione di chi vorrebbe fare musica, ma non è capace, vorrebbe creare armonia, ma non la capisce, vorrebbe mostrare sentimento, ma non lo prova, prova solo disagio. Anche questo ha un diritto di esistere nell’immensa parabola del genere umano, quando le persone hanno oramai abdicato alla loro capacità di imparare per rifugiarsi nella paura e nella pigrizia, le grandi forze che dominano la nostra razza ed il nostro tempo, e che entrambi i moti politici di 100 anni fa, di destra e di sinistra, cercavano di combattere. Oggi, quando ascolto “Biko”, o “Qualcuno era comunista”, o “La locomotiva”, gli Inti-Illimani, la Kwela suonata dal Soweto String Quartet o la Marcia Funebre della Sogenannte Linksradikale Blasorchester torno, pieno di commozione, a sollevare il pugno. Protesto. Da solo, non in un corteo. Ricordo all’universo che esisto, che ho il diritto di farlo, e che credo nella musica, nel corpo, nell’armonia – e che mi fanno schifo tutte le forme di umiliazione di ciò, dalla politica alla politica (come viene intesa oggi), passando per la politica, mi fanno orrore il consumismo e la desemantizzazione forzata, che serve a farci schiavi. Il pugno chiuso, che nella vita di oggi equivale al chewing gum ed all’uso delle pattine, torna così ad essere il grido silente di chi si oppone, ma come individuo, che, come scrisse Sartre (se non ricordo male), non potendo essere musica, pensa e tace. La definirei, con un neologismo, dignità.

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