In questi giorni, 51 anni fa, la radio presentava i primi due singoli di Cat Stevens, un giovanissimo cantante cipriota, naturalizzato inglese, che a nemmeno 18 anni aveva presentato alla Deram un blocco di quasi 20 canzoni, una più bella dell’altra. La casa discografica aveva aspettato mesi, per essere sicura che fossero davvero sue, di questo oscuro Steven Demetre Georgiou (per quello lo pseudonimo), e che non ci fossero né guai né trucchi. Lo affidarono a Mike Hurst, che è uno dei personaggi chiave della storia della musica: a 13 anni aveva firmato il suo primo contratto da professionista, perché suonava con Eddie Cochran (“Summertime Blues”, e poi “C’mon everybody”). Da lì passò a suonare per Dusty Springfield, che cantava canzoni di Bacharach e Nico Fidenco, (“Son of a Preacherman”). Fondò i Methods, che erano Hurst, Albert Lee (Love), Jimmy Page (Led Zeppelin) e Tony Ashton (Paul McCartney & Wings), e che non pubblicarono mai un disco, perché litigarono quasi subito. Hurst e Stevens, ovvero due arroganti, bisbetici, sprezzanti rompicoglioni, tra loro andavano stranamente d’accordo. Prima tirarono fuori “I love my dog”, che era forse la più scarsa canzone del blocco. Poi, per il Natale 1966, questo “Matthew and son”, che divenne in una settimana una hit mondiale. Dopo questa, una dopo l’altra, vennero “The first cut is the deeper”, poi “Here comes my baby” (che iin Italia venne cantata dai Rokes con il titolo “Eccola di nuovo”), “I’m gonna get me a gun”, “A bad night”… nel frattempo la Deram era stata risucchiata dalla Decca, ma Stevens e Hurst tiravano fuori una hit dopo un’altra, ed esattamente 50 anni fa pubblicarono un primo LP, anche questo intitolato “Matthew and son”, fatto con le hit che erano uscite fino ad allora, e che entrò nei primi dieci in quasi tutto il mondo. A questo punto Cat Stevens si è ammalato di tubercolosi ed è stato ad un passo dalla morte. Ha passato oltre un anno in ospedale, studiando yoga, diventando vegano, avendo terribili allucinazioni e studiando musica orientale, e poi è uscito ed è andato a vivere con Patti d’Arbanville, una modella ed attrice americana, che poi si sposerà una mezza dozzina di volte, tra gli altri con Don Johnson e con l’attore francese Roger Miremont. Cat Stevens scrisse tutto un album su di lei, “Mona Bone Jakon”, dalla canzone “My Lady d’Arbanville”, fino a quando si lasciarono, e lui scrisse per lei “Wild world”. A quel punto lui era alla Island, aveva cambiato sound, ma era ancora amico di Mick Hurst, che disse. “Lei lo aveva piantato male, ma lui sorrideva sempre e ringraziava Krishna. Diceva che lei non era pronta per lui, quell’arrogante di merda. Mi veniva continuamente da prenderlo a schiaffi. Ma nessuno scrive o scriveva canzoni straordinarie e complesse come le sue, ed è per questo che bisogna amarlo, tanto ciò che ha nel cuore non lo sa nessuno, troppa messinscena”. Con l’altro grande cipriota della musica inglese, George Michael, Cat Stevens non si è mai preso. Si odiavano, pare. Io sono d’accordo con Mick Hurst. Non mi interessa giudicare l’uomo, con cui probabilmente non riuscirei a passare nemmeno mezz’ora senza sclerare, ma l’artista, che è unico, uno dei più bravi, complessi ed influenti degli ultimi cento anni.

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