Su certe cose non riesco a fare ironia. Lei lo ha certamente amato alla follia, lui non si sa, è uno che si vede da Marte che sia completamente anaffettivo, ed i documentari che ho visto su di lui me lo hanno reso ancora più antipatico. Quando divennero una coppia, lui non era nessuno, solo un ragazzino che cercava di farsi accettare nel club dei grandi del Greenwich Village, che suonava male la chitarra, cantava peggio, e scriveva testi lunghissimi e complicati, senza gli slogan che amavano Pete Seeger e quelli come lui, i fedeli di Woody Guthrie. Il suo primo disco aveva venduto 5mila copie. Lei invece era la grande voce femminile della rivolta studentesca, un’icona, bellissima ed inarrivabile. Joan Baez. Per lui, Bob Dylan, lei si è apparentemente cancellata. Lo seguiva nei tour come la squinzia di un calciatore, lui si credeva già Gesù. Ma lei lo ha amato alla follia, e lui, dopo qualche anno, l’ha piantata in asso, e le canzoni che ha scritto su di lei sono famose, ma tutt’altro che gentili. Essere una cantante di successo non vuol dire avere una vita fortunata, non per forza. Sua sorella, Mimì (che Joan adora), che a 17 anni era scappata con il cantante messicano Richard Fariña, tornò a casa distrutta, lui era morto cadendo dalla moto. Mimì rimase per anni in profonda depressione, poi incontrò un produttore folle e travolgente, Milan Melvin, e tornò alla vita. Per tre anni da pazzi, al termine dei quali lui la mollò come in un brutto film, scappando da un motel nel deserto in cui avevano passato la notte. Mimì ha passato la vita a cantare e raccogliere fondi per i malati terminali, ed è poi morta di cancro. Joan sposa David Harris, uno che si era rifiutato di andare a combattere in Vietnam ed era finito in prigione. Secondo me fu, in parte un’operazione di marketing commerciale. Ed infatti, quando lui uscì di galera, la cosa finì in un battibaleno. Lui si mise a scrivere libri sul football americano e tentò inutilmente una carriera federale nel Partito Democratico, lei tornò a suonare. Ma, nonostante il meraviglioso “One day at a time”, che contiene la dolcissima “Sweet Sir Galahad”, dedicata a Mimì e Melvin, la stella di Joan Baez sta tramontando, come tutta la musica folk tradizionale, soppiantata dalla West Coast e dal country rock. Nel 1974, Dylan, di notte, telefona a Joan Baez. In una delle sue crisi di infantilismo, la riempie di melensaggini piagnucolose. Lei riattacca e scrive una canzone terribile e stupenda, “Diamond and Rust”, diamante e ruggine, che secondo Dylan sarebbe la sostanza dei ricordi. Lei ammette di amarlo ancora, ma che sia inutile: “Siamo come maledetti, ecco che torna il tuo fantasma, ma non è strano, c’è solo la luna piena (…). Avevi degli occhi belli come rubini e dicevi che le mie canzoni fanno schifo (…) e mi dici che non hai nostalgia, ma qualcosa d’altro, sei sempre stato bravo con le parole ed a parlare senza mai essere chiaro (…) ma se sei qui per portarmi diamanti e ruggine, ti prego, il prezzo l’ho già pagato”. quando ascolto questa canzone, commosso, penso agli amori che abbiamo solo sognato, proiettato, per gente che non aveva niente da dare – ed a tutte le volte che noi siamo stati lo stesso per qualcun altro. Perché siamo talmente occupati a cercare di fingere di amare noi stessi, che creiamo un’immagine dell’amore e la appiccichiamo addosso (preferibilmente) a persone senza carattere, deboli, che si lasciano manipolare facilmente. E restiamo soli, come meritiamo, a spalare nella miniera infinita in cui diamanti e ruggine diventano la stessa cosa: lacrime di sciocca autocommiserazione, o gocce sudore di vita, la nostra, da salvare.

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