Il lavoro ha sempre più una sostanza rivoluzionaria. Nel mondo di oggi è divenuto un privilegio, una cosa che ricevi in dono se hai i contatti giusti, i comportamenti giusti, in un marasma in cui solo pochissime persone, che manualmente fanno le cose, ottengono il risultato per cui vengono pagate. Gli altri ricevono un salario per un capriccio del fato, e lo difendono (per l’appunto) da Déi capricciosi. Le tasse, poi, non sono una cifra che si paga per avere dei servizi, ma per donare ad altra gente, che altrimenti bighellonerebbe per strada, un pretesto per chiudersi in un luogo per otto ore al giorno, facendo finta di avere una mansione e ricevere un salario. Oggi più che mai, il mondo si divide tra coloro che creano ricchezza, e quelli che la distruggono. Dal momento che i secondi sono molti, moltissimi di più, costoro sono la sostanza elettorale per eccellenza, vengono blanditi e ricevono regalie. Ma il lavoro, quello vero, è rivoluzionario. Se te lo sei creato, allora dai fastidio, e vieni punito. Perché acquisisci una tua consapevolezza e risolvi i tuoi bisogni da solo, con la tua attività. Alla massa di distruttori viene detto che costoro, pochi eletti, siano i vincitori di una lotteria legata al caso, di modo che continuino a distruggere e ad essere distrutti senza lamentarsi se non per motivi apparentemente sentimentali – persone convinte, come bimbi sempiterni, che abbiano diritto alle regalie che ricevono, e che quel minimissimo di prestazione che viene loro richiesta sia una pressione enorme e quasi intollerabile, che siano quasi eroici, e che distruggere sia un loro sacrosanto diritto, mentre cercano confusamente di trovare un briciolo di identità (di cui percepiscono la mancanza) in relazioni di manipolata interazione sessuale mascherate da epos. Non vogliono essere giudicati, ma giudicare. Non vogliono essere malmenati, ma malmenare. Una volta distrutto il concetto di solidarietà, quello di cittadinanza, quello di consapevolezza, dibattono su finte questioni estetiche, come le formazioni dei partiti, delle squadre di calcio o degli invitati a trasmissioni di intrattenimento televisivo. Ma il lavoro è tenace, resiste, indifferente, e resta rivoluzionario. Non è vero che non ci sia più lavoro, ma è vero che vengano richieste competenze che non ha quasi nessuno, o che si cerchino persone per lavori umili e faticosi, per giunta pagati malissimo, che nessuno vuole fare – e si insegna ad odiare coloro che fanno quei lavori umili, accusandoli di rubare ricchezza, mentre sono tra i pochissimi che la creano. La fine della consapevolezza del proletariato non ha aperto a tutti le porte dell’epopea individualista borghese, quella porta è stata aperta dal sistema fiscale e dalla lotteria dell’impiego. La fine di quella consapevolezza cerca di togliere la dignità del lavoro. Ma lo ripeto: non riesce, nulla è rivoluzionario quanto il lavoro. L’impegno personale e solidale nel costruire qualcosa che non c’era, senza lamentarsi per i rischi, la fatica, la difficoltà – perché sono cose che ti aiutano, non è vero che ti vessano, così come il corpo migliora allenandosi. Quando incontrate qualcuno impegolato in un gioco di attrazione sessuale divenuto psicosi, o qualcuno che se la tira perché ha avuto il permesso di aggiungere una riga sul proprio biglietto da visita, non lasciatevi fregare. Il lavoro è la sostanza rivoluzionaria. Bisogna prepararsi alla svelta ad un nuovo medioevo in cui sarà sempre più arduo, mentre folle di carneadi sceglieranno tra feudale, militare ed ecclesiale. Ed io, come diceva Giorgio Gaber, come uomo o donna ci sono, ci sono ancora. Fatevi sotto. Chi uccide, per invidia, un creatore di ricchezza, sta suicidandosi, perché non è capace a sostituirla, ed è schiavo, perché deve aspettare che qualcuno lo faccia per lui. Fatevi sotto, allora.

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