Hamburg è un cielo sempre di ghiaccio, bianco più che grigio; è una pioggerellina fastidiosa che batte tra palazzi di vetro, vecchi edifici scrostati imbiancati di fresco in color nostalgia; è un mare di persone infagottate che finge di essere intellettuale, ed in realtà è di un’ingenuità colossale, come questa canzone; è migliaia di ragazze e ragazzi alti un chilometro, dalla pelle pallida come un’allegra paura; è prendersi sul serio, sempre e comunque; è la forza di un oceano di persone che sono evidentemente giovani anche a 70 anni, che vanno per strada per dimostrare non una linea politica, ma uno stile di vita; è i colori – tantissimi e vivissimi – dei vestiti ricercatamente dozzinali; del punk dopo il punk – non del punk invecchiato, ma della resistenza ad un’estetica superata dai fatti, perché si crede ancora che, anche se non si può rimontare e cambiare la storia, basti la testimonianza attiva per perpetuare un modello; è un’ideologia fatta di finta gioia, di solitudini mascherate dall’impegno o dall’arte, di negazione brutale del pathos, del voler sembrare lucidi anche quando si piange e si grida, soprattutto quando si piange o si grida; ed ancora quella pioggerellina, ed il rumore delle sirene delle navi, il tergicristalli che non smette mai, i rivoli d’acqua ai lati delle strade che ti mangiano via i mocassini; il tempo che se ne è andato, portandosi via una “gioventù colossale”, che poi era divenuta un modo gelido di essere genitori affettuosi, ma che alla fine hanno viziato i figli; è andare a vedere il St.Pauli, commuoversi andando a sentire Mutter, è guardare Die Zukunft dal vivo e sapere che quello è un passato di cui si è persino persa la declinazione; è un codice a barre dopo la vittoria dell’iPhone; è le botte nei prati intorno alle roccaforti del G8; è Bernadette Hengst, la splendida ragazzina spaccatutto degli Huah!, poi la morbida cantante di Die Braut Haut ins Auge (la Sposa picchia agli occhi, che canta “io voglio amore, non rivoluzione, quella l’ho già avuta prima”), poi la cantautrice di un’elettronica decostruttivista berlinese, quando si crede ancora che questa famiglia funzionerà meglio dello schifo dei nostri genitori… ed ora questa dolcissima canzone, piena di luoghi comuni, piena di bimbi già ideologizzati, costretti alla consapevolezza (magari si potesse fare anche in questo obbrobrio di Italia di cazzoni e mamme tragicomiche) ma finalmente una concessione alla malinconia, al dubbio della disperazione, alla rabbia fisica. Quanto vi ho amati, invidiati, venerati, disperatamente cercato di capirvi. Quanto è stato inutile, perché io vengo da Roma, e voi non avete mai fatto parte del nostro Impero, voi siete fieri barbari che resistono senza una smorfia al gelo ed alla fame… ed a questa maledetta pioggia, che non smette mai. Con affetto, riconoscenza, ammirazione, vi saluto tutti, vi abbraccio come so che sapete fare. Ted, Knarf, Patex, Sylvie, Thomas, Victor, Frank, Alfred, tutti. Anche i più saputelli. Perché io sono qui, all’asciutto del sole del Sud, e nuoto nel pathos. Vi bacio tutti.

Lascia un commento