Improvvisamente è diventato buio, dopo la prima meravigliosa giornata di sole. Ho lavorato tutto il tempo, fermandomi solo per tacitare i miei mostri interiori, mangiando. Ho studiato ancora qualcosa che conosco sempre meglio, come la storia della linea di confine sul Rio Congo, apparentemente a milioni di chilometri da me. E mi è venuta la nostalgia di tutto ciò che non vedrò mai di persona, di tutto ciò che non saprò mai, di tutto ciò di cui mi capiterà di parlare solo superficialmente, per sentito dire, per conformismo, per innata banalità. Non siamo granché. Ed il grande bisogno che abbiamo, questa fame che non può essere vinta, cresce, col tempo, invece di diminuire. M. ha ugualmente torto. Di banalità si muore, non si vive. Nella sua inesausta ricerca di equilibrio disconosce una verità ovvia. L’unico equilibrio possibile è la sua assenza, è lo scivolare sull’onda del surfer, che alla fine, giocoforza, finirà in acqua. Le piace guardare dalla riva. Dice che è obbligata a farlo. Mi dispiace tantissimo che anche lei svanisca, come tanti di coloro che mi hanno salvato in questi lunghissimi cinque anni e mezzo di Roma. Ma adesso è buio, non me la sento di uscire, non ho abbastanza sonno per dormire. I mostri mi guardano dalla porta del mio studio. Vado ad abbracciarli, che loro non mi lasceranno solo. Mai.

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